Non si fermano gli attacchi dei ribelli Houthi yemeniti contro le navi in transito lungo una delle rotte marittime più strategiche al mondo. Per proteggere la navigazione Bruxelles si appresta a lanciare un’operazione militare tra il Canale di Suez e il Golfo di Aden
Le acque del Mar Rosso si fanno sempre più agitate, con i ribelli Houthi yemeniti che continuano a prendere di mira le navi in transito, minacciando una delle rotte marittime più strategiche al mondo per i commerci globali. Così l’Unione europea corre ai ripari per mettere in sicurezza mercantili e petroliere. Ieri il Consiglio affari esteri dell’Ue ha “concordato in linea di principio l’avvio della missione Ue nel Mar Rosso, ora dobbiamo lavorare per l’unanimità sul quando”, ha spiegato l’Alto rappresentante per la politica estera Josep Borrell a proposito dell’operazione Aspides (“scudi”) che Bruxelles si appresta a lanciare su spinta in particolare di Italia, Francia e Germania.
La missione militare coprirà il tratto di navigazione che va dal Canale di Suez al Golfo di Aden. E potrebbe inglobare anche l’operazione Emasoh/Agenor, già attiva nello Stretto di Hormuz tra la Penisola arabica e l’Iran. I dettagli sul contributo dei singoli Paesi restano da definire. Se ne parlerà probabilmente a Bruxelles il 30 e il 31 gennaio, quando è in programma una riunione dei ministri della Difesa Ue.
Di certo Aspides sarà “strettamente difensiva“, a differenza dell’angloamericana Prosperity Guardian, lanciata da Washington lo scorso dicembre. Prevederà dunque l’abbattimento di droni, missili e qualsiasi altra arma diretta contro le navi mercantili ma non attacchi in territorio yemenita. La distinzione tuttavia rischia di essere “puramente semantica“, spiega all’Ansa il generale Vincenzo Camporini. Per aver un quadro più chiaro bisognerà attendere la definizione delle regole d’ingaggio.
L’operazione fa perno su un recente mandato delle Nazioni Unite e sul Trattato dell’Unione europea, che prevede l’uso di mezzi “civili e militari in missioni all’esterno dell’Ue per garantire il mantenimento della pace, la prevenzione dei conflitti e il rafforzamento della sicurezza internazionale, conformemente ai princìpi della Carta Onu“.
Quello nel Mar Rosso “è un intervento militare a difesa delle navi mercantili italiane, c’è un crollo nel traffico mercantile, noi siamo un Paese esportatore e abbiamo il dovere di difendere le nostre navi. Non facciamo la guerra a nessuno ma difendere le nostre navi è un dovere della Repubblica e del governo”, ha detto da Bruxelles il ministro degli Esteri Antonio Tajani. “L’uso della forza verrà previsto per difendere i mercantili. Non sarà un semplice accompagnamento, come prevede oggi la missione che c’è a Hormuz”, ha aggiunto il capo della Farnesina precisando che il governo riferirà in Parlamento.
Intanto sono sempre più numerosi gli armatori che cominciano a tenersi alla larga dal Mar Rosso e dallo Stretto di Bab al-Mandeb, un braccio di mare che collega Oceano Indiano e Mar Mediterraneo, scegliendo la via più lunga e più costata attorno all’Africa. Le conseguenze, per ora, sono ancora limitate ma se la crisi dovesse protrarsi a lungo, l’impatto sarebbe incalcolabile per l’economia globale, a cominciare dalle forniture di energia.
La rilevanza strategica dello Stretto di Bab el-Mandeb sta nei numeri. Attraverso questa strozzatura che unisce Asia e Europa passa tra il 12% e il 15% del commercio marittimo mondiale, inclusi il 12% del greggio via nave, l’8% del gas liquefatto, l’8% del grano e il 20% delle navi container. Sono dunque evidenti le ricadute a livello globale di un possibile blocco della rotta. “Rischiamo di ritrovarci con i porti deserti nelle prossime settimane”, ha detto di recente il ministro della Difesa Guido Crosetto.
Bab el-Mandeb in arabo significa “porta delle lacrime” o “porta del dolore”. Una definizione che sintetizza alla perfezione il destino che sin dall’antichità ha segnato lo stresso che separa la penisola arabica dal continente africano. Largo meno di 40 chilometri e lungo circa 130, si ritiene debba il proprio nome ai pericoli insiti nella navigazione, tra scogli e secche, correnti trasversali e venti imprevedibili.
A preoccupare è soprattutto il pericolo di un’interruzione delle forniture di greggio con lo stop delle navi petroliere. Ultimo in ordine di tempo, il colosso britannico Shell due giorni fa, dopo gli attacchi di Stati Uniti e Regno Unito contro i ribelli filo-iraniani, ha sospeso tutte le spedizioni a tempo indeterminato attraverso lo stresso di Bab al-Mandeb. Alla fine dello scorso dicembre era stata British Petroleum ad annunciare lo stop.
Se non bastasse, lo scorso 15 gennaio fa il Qatar ha interrotto l’invio di navi che trasportano gas naturale liquefatto attraverso il Mar Rosso. Si temono le conseguenze di uno stop prolungato da parte del secondo fornitore di Gnl in Europa mentre il clima invernale ha investito il Vecchio continente.
Il cambio di rotta ha causato rallentamenti nelle consegne delle merci. Diverse aziende hanno già annunciato ritardi, come il colosso svedese dei mobili Ikea. Anche il settore automobilistica sconta la crisi in Medio Oriente. Tesla ha fatto sapere che la produzione verrà sospesa per due settimane negli impianti europei, a cavallo tra gennaio e febbraio. Anche Volvo ha annunciato un stop per i ritardi lungo la catena di approvvigionamento dei componenti.
A complicare un quadro già intricato c’è la siccità che ha colpito il Canale di Panama rallentando notevolmente il transito delle navi tra l’Asia e gli Stati Uniti.
Nella terza settimana di gennaio, l’indice composito di Drewry (World container index) è cresciuto del 23% a quota 3.777 dollari per un container da 40 piedi, la principale unità di misura del comparto. Il balzo è pari all’82% se confrontato con lo stesso periodo dello scorso anno. Il costo è più che raddoppiato rispetto ai 1.382 dollari di novembre.
Secondo la piattaforma logistica Container xChange, i costi aggiuntivi per il carburante si aggirano intorno al 20%, mentre i premi assicurativi sarebbero lievitati all’1% del valore della nave, stimano le compagnie del settore interpellate da Reuters.
Un aumento dei costi che agita lo spettro dell’inflazione. Il calo dei costi dell’energia è stato alla base della riduzione dei prezzi. Di conseguenza qualunque interruzione delle forniture vanificherebbe gli sforzi fatti finora per riportare l’inflazione sotto il livello di guardia. Secondo T Rowe Price, società statunitense di gestione degli investimenti, un rialzo del 10% del costo del greggio causerebbe un aumento dell’inflazione dello 0,4% nell’Eurozona nel 2024.
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