Roma, Parigi e Vienna, col sostegno di altri nove Stati membri, hanno inviato una nota congiunta in vista del Consiglio Agricoltura: “Molte domande che devono essere discusse”. Il nostro Paese è il primo al mondo a vietarla per legge, ma altrove è già realtà
Roma torna all’attacco della carne coltivata in laboratorio. In vista del Consiglio Ue Agricoltura di oggi, la delegazione italiana, assieme a quelle di Francia e Austria, ha inviato una lettera congiunta, sostenuta da altri nove Stati membri, per mettere in guardia dalle “nuove pratiche” che rappresentano una “minaccia” ai “metodi di produzione alimentare genuina che sono al centro del modello agricolo europeo“. Nel mirino dei tre Paesi in particolare “la produzione di carne con la tecnologia delle cellule staminali, che richiede tessuti di animali vivi”, il cui sviluppo, sostengono, “solleva molte questioni che devono essere discusse approfonditamente”.
La nota ha incassato l’appoggio di Repubblica Ceca, Cipro, Grecia, Ungheria, Lussemburgo, Malta, Romania e Slovacchia, Lituania. Nel testo, Roma, Parigi e Vienna invocano il ruolo della Pac, la Politica agricola comune, nella salvaguardia della produzione agroalimentare di alta qualità. “Gli agricoltori europei contribuiscono per circa l’1,3% al Pil europeo, ma i loro sforzi per garantire la sicurezza alimentare e una maggiore autosufficienza, nonché per fornire ai cittadini alimenti sicuri e di alta qualità, sono molto più elevati”, scrivono tra l’altro le tre delegazioni.
L’Italia è il primo Paese al mondo a mettere al bando alimenti e mangimi costituiti, isolati o prodotti a partire da colture cellulari o di tessuti animali. Lo scorso 16 novembre l’Aula della Camera ha approvato in via definitiva il disegno di legge che vieta la produzione e la commercializzazione della carne coltivata.
Obiettivo dichiarato del provvedimento è “tutelare il patrimonio zootecnico nazionale, riconoscendo il suo valore culturale, socio-economico e ambientale, assicurando al contempo un elevato livello di tutela della salute umana e degli interessi dei cittadini-consumatori“. In occasione del via libera in prima lettura al Senato, nel luglio scorso, il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida aveva invocato il principio di precauzione.
Oltre allo stop alla produzione e alla commercializzazione, il testo messo a punto insieme al ministero della Salute vieta anche l’uso della denominazione “carne” per prodotti trasformati contenenti proteine vegetali. Così come è vietato l’utilizzo di terminologie specifiche della macelleria, della salumeria o della pescheria (dalla bresaola alla bistecca). Lo scopo, sostengono, è porre un freno al cosiddetto “meat sounding” e favorire acquisti più consapevoli da parte del consumatore.
Sul fronte sanzioni, oltre alla confisca dei prodotti è prevista una multa da 10mila a 60mila euro (o equivalente al 10% del fatturato se questo supera i 60mila euro). Per chi vìola il divieto inoltre è prevista la chiusura dello stabilimento di produzione da uno a tre anni e, per lo stesso periodo, l’esclusione da contributi, finanziamenti o agevolazioni statali o dell’Unione europea. Alle medesime sanzioni è soggetto chiunque finanzi, promuova o agevoli in qualunque modo le condotte di produzione o commercializzazione.
Il timore più che fondato è che il provvedimento entri in conflitto con regole dell’Ue. Da più parti, inclusi gli uffici del Quirinale, si teme una procedura di infrazione da parte della Commissione europea. Bruxelles dovrà verificarne la conformità del testo al diritto comunitario. Il divieto di importazione e vendita nel mercato italiano in particolare potrebbe violare il principio della libera circolazione delle merci in Europa.
Lo scorso ottobre il governo aveva ritirato la notifica Tris che ogni Paese membro è tenuto a inviare alla Commissione europea al fine di prevenire ostacoli alla libera circolazione di merci e servizi all’interno del mercato unico. Una mossa che in molti hanno letto come un tentativo di evitare una bocciatura da parte di Bruxelles.
“Riteniamo che non ci sia nulla da temere”, ha assicurato Lollobrigida in Aula. Ma, come ha notato l’Associazione Luca Coscioni, “se l’Ue approvasse la commercializzazione di carne coltivata, l’Italia non potrebbe vietare ad altri Paesi dell’Unione di portarla da noi”. In altre parole, “a pagare il prezzo di questa proibizione saranno soprattutto le imprese italiane costrette a rinunciare alla produzione e scoraggiate a investire nella ricerca”.
Mentre l’Italia la mette al bando, altrove la carne coltivata – dalle polpette agli hamburger passando per bistecche e filetti di pesce – è già realtà. È il caso degli Stati Uniti, dove il governo federale lo scorso giugno ha dato il via libera alla commercializzazione del pollo coltivato in laboratorio e resto sarà sul menù di due ristoranti Usa. Ben prima degli States, Singapore ne consente la vendita dal 2020. Si può trovare anche nei locali di Tel Aviv. Per vederla sui banconi dei supermercati però ci vorranno ancora alcuni anni. Anche perché i prodotti ottenuti non sono ancora del tutto paragonabili a quelli originali e hanno dei costi ancora molto elevati per una produzione su larga scala.
Dal punto di vista tecnico, quando si parla di carne coltivata si fa riferimento alla carne prodotta a partire da cellule animali nutrite con sieri di origine vegetale o animale all’interno di bio-reattori, che consentono loro di crescere fino a diventare tessuto muscolare.
La definizione “carne sintetica”, largamente impiegata, è impropria perché il processo produttivo non prevede reazioni di sintesi chimica. La carne coltivata “viene prodotta a partire da cellule staminali di muscolo prelevate dall’animale tramite biopsia”, spiega all’Ansa Stefano Biressi, professore di biologia molecolare all’Università di Trento. “Le cellule vengono coltivate in bioreattori con un liquido di coltura che contiene elementi nutritivi e fattori necessari a indurre prima la moltiplicazione, poi il differenziamento e la maturazione in cellule muscolari. L’intero processo produttivo può richiedere alcune settimane: per ottenere un pezzo di muscolo servono milioni di cellule”.
La carne coltivata promette di essere più salubre e controllata di quella tradizionale e soprattutto di ridurre il ricorso agli allevamenti intensivi, a tutto vantaggio dell’ambiente, grazie alla riduzione delle emissioni di gas serra, del consumo di acqua, energia e suolo. Un’alternativa capace di sfamare una popolazione mondiale in continua crescita, che secondo le Nazioni Unite nel 2050 sfiorerà i 10 miliardi di persone. Senza contare il risvolto etico della carne prodotta in vitro che non prevede la macellazione di animali.
D’altra parte allo stato attuale “fare stime dell’impatto ambientale è difficile, perché ogni prodotto richiede ingredienti e metodiche differenti”, osserva l’esperto. “Bisogna poi considerare che molti degli studi che definiscono la carne coltivata come più energivora e dannosa per l’ambiente valutano processi produttivi e protocolli sperimentali che spesso usano prodotti e standard molto raffinati (mutuati per esempio dalla medicina rigenerativa) che ovviamente non potrebbero essere applicati a una produzione alimentare su larga scala”.
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